L’ACREDINE NUOCE ALLA SALUTE
C’era una volta un paesino piccino picciò. Così piccolo da sostenere il paradosso di essere teatro di grandi contrasti intestini, sociali e culturali. Accadeva infatti che alcune iniziative innovative, in termini di folklore e partecipazione popolare, intraprese da un gruppo di volonterosi amanti del luogo e delle sue tradizioni, risultassero indigeste a chi per decenni aveva gestito le manifestazioni locali a mo’di pro loco, non senza il grosso riconoscimento di saper richiamare la partecipazione anche delle altre comunità vicine. Tale intolleranza si concretizzava in aspre critiche su quanto era stato fatto, cercando di farlo passare per l’intenzione di rimpiazzare la vecchia guardia. Gli innovatori venivano attaccati con definizioni canzonatorie, che mal celavano in realtà una acredine conclamata verso il nuovo, palesando l’evidente timore di essere accantonati dopo decenni di onorato servizio. Mentre nulla di tutto ciò era mai passato per la mente di chicchessia. Dimostrazione evidente di rancori mai sopiti e di insofferenze mal tollerate. L’azione di contrasto era di carattere epistolare, non vis-a-vis, non in un confronto pubblico, che avrebbe reso invece quantomeno civile la rigida presa di posizione. Si trattava di uno scritto, breve, che voleva criticare un altro scritto, più lungo trattandosi di un libro, una sorta di resoconto cronistorico di come fosse stato possibile organizzare, finalizzare e gustarsi una grande festa. Gli aspetti enunciati ed enfatizzati nella lettera si rivelavano appunto in evidente contrasto con la realtà, arrivando in ultimo a rimproverare all’autore del libro di essere stato poco educato, con una metafora del saluto che tocca a chi arriva e non a chi ospita, che davvero non si riusciva a contestualizzare. La risultanza di questo attacco, contrariamente a voler essere una critica costruttiva, il che poteva anche starci, semmai ce ne fosse stato bisogno, era quella di dimensionare inequivocabilmente il risentimento che chi scriveva si portava dentro, al punto di allontanargli, dalla vista e dalla mente, ma forse più dal cuore, l’evidenza del danno arrecato all’armonia ed all’equilibrio che la comunità si stava impegnando a raggiungere. Ampliando gli orizzonti, dando respiro ed appetibilità ad un potenziale fino ad allora sopito. Senza rendersi conto che una mentalità circoscritta alle vecchie abitudini invece avrebbe alla lunga danneggiato sé stessa, accompagnando mestamente all’ombra dei cipressi ciò che ancora voleva rappresentare. Che, come ben disegna un detto del dialetto locale, “finisc sott l’albero pizzut“, è il luogo del sonno eterno.

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