UN GIORNO DI FESTA


Oggi il paese è sveglio prima del solito. La fiera è uno dei momenti più attesi della liturgia laica che scandisce i ritmi sopiti della vita comunitaria. Si aspetta tutto l’anno e come tutti gli anni trasforma il paese nel centro del piccolo mondo, che vorrebbe restare antico, perché fonda la propria identità su quel che era. Sulle bancarelle allestite in piazza e lungo un ampio tratto della statale, si trova tutto ciò che serve e che non si ha mai animo di andare a cercare altrove. Si aspetta, la fiera del paese, con le modernità che le esigenze richiedono, benché foriera di antichi fasti e ricordi, che si perdono nella memoria di chi si incontra e racconta com’era. Come certi profumi che ormai non ci sono più, così come quegli animali di cui si faceva mercato, a suggellare il connubio tra l’uomo ed il prosieguo della vita. Oggi tuttavia arrivano ancora in molti, da ogni dove, paesi vicini ma anche da un po’ più lontano. E se io gli dico che vengo da ancora più lontano, trovo sempre quello che a Genova c’è stato e mi deve raccontare come, dove e quando. Salvo poi non toglierti neanche un “citto” dal prezzo di quel che gli compri.

Poi la fiera svanisce, il mercato si richiude su sé stesso ed i furgoni sono pronti per un’altra tappa, il giorno successivo. Ora l’attesa è fremente per la rievocazione storica. Mesi e mesi di preparativi, intensi ed impegnativi, stanno per prendere corpo, a beneficio di una platea che vuol vedere se tutto quel che si dice sia vero. E non avrà di che ricredersi. Decine di persone indossano abiti che furono di moda sei secoli fa, un bel salto indietro nel tempo. Soprattutto se si pensa a chi impegna il proprio tempo a costruire letteralmente certe vesti, che più che vesti sono opere d’arte. Emoziona vedere tanta partecipazione, specie perché la maggioranza è di qui. Ed è ancora più bello vedere che a calarsi nei panni dei nostri antichissimi predecessori c’è anche chi viene da oltreoceano, che di questa storia non ha tradizione, ma che sente che il suo fascino non ha confini, nel mondo che l’ha cullata. Arriva il momento, la tensione cala ed i personaggi prendono vita. La piazza diventa quella di fine ‘400, nobili e popolani rimpiazzano la gente che passava di lì e che istantaneamente diventa pubblico. Tra editti e racconti, fanfare e tamburi, bandiere e colori, il corteo prende forma e si inerpica per le rue. 

Dopo una prima sosta nel cuore del borgo, il corteo, impreziosito dalla presenza di quattro sindaci, fa ritorno alla piazza di partenza, dove il pubblico è rimasto, in attesa di assistere alla rappresentazione finale di ciò che realmente accadde quel giorno di tanto, tanto tempo fa. Quando le firme degli attori convenuti sono apposte sul decreto reale e gli accordi suggellati da una nobile stretta di mano, si aprono le danze, eleganti nelle movenze e sulle note di melodie medievali. E poi, giocare col fuoco non è un modo di dire, ma il coraggioso spettacolo di chi dalla bocca sputa fiamme che si perdono nell’aria. La messa in cattedrale, celebrata dal vescovo successore di quello che la storia ha da poco ricordato, chiude una manifestazione che ha donato al paese un pomeriggio di svago e di gioiosa condivisione. Tutto torna alla realtà, tra applausi e sorrisi e tra poco, su quella stessa piazza, tornerà la festa dell’anguilla e del gruppo rock.

Quando, il mattino dopo, consapevole che la piazza adesso è vuota, lavando le tazze della colazione per l’ultima volta e sperando che lungo la strada il tempo sia clemente, realizzo che andarsene è un crimine contro la mia umanità. È come fosse sempre la sveglia alle sei di un lunedì mattina piovoso. È come abbandonare il porto sicuro per tornare a solcare i mari agitati di una vita per la quale sono comunque grato al Signore, perché mi riserva questi regali. Momenti in cui comprendo a fondo che tutto sommato questa vita non è poi così malaccio, perché in essa stessa si rivela la speranza che, in quel porto, un giorno, la sosta sarà più lunga e quiete e riposo rimpiazzeranno finalmente le preoccupazioni. 

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