CONFESSIONI SDOLCINATE (non adatte agli uomini veri)
Spesso mi confronto con me stesso per capire se "essere un uomo" mi si addica. Se con tale concetto si intende essere in grado di dominare le emozioni e saper gestire le situazioni complesse che la vita pone sul cammino di ogni individuo, quelle che vanno al di là del tranquillo riparo nell’ordinarietà quotidiana e che aborriscono rifugiarsi nella sicurezza di una anonima esistenza, evitando intenzionalmente ogni complicanza che richieda impegno fisico e psicologico, io mi ricorderò come un uomo incapace di realizzarsi al di fuori di questi aspetti, come una persona senza intraprendenza morale e del tutto priva di quel fattore 'cattiveria' indispensabile per ergersi al di sopra della mediocrità, per farsi valere agli occhi altrui, impegnandosi piuttosto per evitarlo. Una persona con un carattere poco avvezzo alla disputa e con una personalità assolutamente debole. Volutamente debole. Ho sempre avuto paura dei conflitti, in particolare quelli esterni alla mia cerchia familiare. In essa le diatribe possono essere affrontate, conoscendo chi si ha di fronte, al solo scopo di chiarirsi e giungere alla risoluzione, gioco forza anche attraverso momenti più aspri. Mentre, all'esterno di tale contesto, nei rapporti con persone pur conosciute, il timore di compromettere anche quello più irrisorio mi ha sempre frenato e continua a farlo, per quanto età ed esperienza dovrebbero ormai contribuire a svoltare. Tuttavia, così non è e tutt'ora le vicende umane mi inculcano timori ed incertezze, prevenendo quindi ogni conflitto, anche lì dove pare sia normale doversi lasciar andare alla ineluttabile prassi del confronto. Fuori discussione quindi che ciò accada con persone sconosciute; la paura di subire, sia fisicamente che moralmente, predomina in maniera costante su ogni principio che non sia quello del quieto vivere. E di questo non mi compiaccio, tutt'altro anzi, un po' me ne vergono pure. La memoria degli episodi che hanno scandito i miei atteggiamenti di fronte alla crudezza della vita mettono radici nell'età scolastica, attraverso poche ma significative tappe che hanno contraddistinto questo mio rapportarmi con il prossimo fino ad oggi. Quando, a pensarci a fondo però, dopo quasi una vita intera trascorsa ad evitare l'astio, ho la sensazione piuttosto fondata che non si tratti né di paura né di debolezza. Ma del sentimento predominante dell'essere uomo a modo mio, del mio essere "essere", il sentimento per antonomasia e che non per questo io senta solo il bisogno di ripararmici dietro, nascondendo un’altra natura che non c’è. L'amore. "Uh che lagna!” si dirà, "...che stupide cazzate!" mi sembra di sentire. D'altronde, in questo nostro mondo famelico, si dice amore e si pensa subito alla debolezza, appunto, alla assai scarsa probabilità che l’amore trovi albergo nell'umanità. Alzi la mano chi pensa che le incomprensioni tra gli uomini si possano risolvere con l'amore. Non quello scontato dei libretti e delle canzonette. Non quello raccontato dalle epopee letterarie e cantato dai menestrelli di ogni epoca. Quello che definisce e dimesiona il rapporto tra due esseri, nell'ardua contrapposizione col suo esatto opposto, l'odio. Quell'altro sentimento che sembra permeare la nostra società prima di ogni altro valore (io intanto picchio per primo, poi vediamo che succede). Nel quale non mi riconosco, vivaddio, perchè, altra cosa di cui sono piuttosto certo, non conosci odio se ami e non conosci amore se odi. O ancora meglio, per come la vedo io, più si ama, più si comprende quanto sia sbagliato, o stupido, o inutile odiare. Cosa che sembra non avere la stessa risultanza invertendo i fattori. Quando guardavo di sottecchi mio padre che nascondeva la sua commozione fino alle lacrime solo per il lieto fine di un film, sorridevo e pensavo quanto una persona così decisa e capace potesse essere allo stesso tempo anche così sensibile. Per ritrovarmi poi, nell'impietoso incedere del tempo, a rivivere esattamente le sue stesse emozioni, grazie a quella parte di sé che egli ha lasciato in me. Quando, durante una celebrazione eucaristica, ci si scambia il segno di pace, che in quel momento appare puro e sincero, l'idea che usciti dalla chiesa si sia pronti a sputarsi in faccia per un'inezia, mi spinge a voler gridare al mondo che il segno della pace dovrebbe essere veramente tale e non solo un passaggio obbligato, quasi automatico, di un rito ormai consolidato nella ripetitività. Quando un sorriso ad una persona estranea sorge in maniera spontanea ed inaspettata, per un gesto, una circostanza, significa che, prima di ogni altro contrasto, i due esseri si rapportano in un contesto di accettazione reciproca. Che è molto più facile da accogliere e da apprezzare, che non dover ricorrere ad un astio evidentemente nascosto in qualche anfratto dell'anima, ma sempre pronto all'uso, come arma di difesa preventiva. Perché è così che ormai siamo abituati a vivere. Tanto che ricevere un sorriso od un gesto gentile suona anomalo, quasi fasidioso, induce ad essere prevenuti ed a pensare che comunque la fregatura da qualche parte debba esserci per forza. Ma davvero è così tanto più semplice e sbrigativo insultarsi che sorridersi ? E se le cose stanno davvero così, qual'è il motivo ? Chissà se avrò voglia di andare avanti, in un altro momento. Perché ce ne sarebbero di cose ancora da dire, tante, tante, sugli uomini con le palle e su quelli senza….

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